il romanzo del XXI secolo, un’inchiesta

Continua la bellissima inchiesta di Davide Bregola sul romanzo del XXI secolo, risponde anche Antonio Spadaro, il nostro tecnogesuita (en passant segnalo pure la risposta di Demetrio Paolin, il vicedirettore di BombaSicilia)

(sempre tra parentesi noto con vivo piacere che il dibattitto su vita e letteratura impegna tante teste brillanti, riecheggiano in questi tempi difficili le imperiture domande le cui risposte l’uomo cerca nella letteratura, e la rinata vibrisse si colloca come centro nevralgico, lasciatemi essere orgoglioso di essere stato segnalato nel primissimo post da giulio mozzi "le persone che mi hanno scritto per chiedermi: "Che cosa è successo a vibrisse?" sono state in questi mesi veramente tante. Così che, a un certo punto, cominciai a esplorare le possibilità. (In queste esplorazioni mi hanno aiutato alcune persone: ringrazio in particolare Tonino Pintacuda). Alla fin fine mi sono rassegnato: il nuovo vibrisse non poteva che stare nel web").

Avevo chiesto ad Antonio Spadaro di mandarmi qualche riga sulla sua idea di Romanzo per il XXI secolo, agli inizi di dicembre ’05 ci siamo visti alla Fiera della Piccola e Media Editoria di Roma e abbiamo iniziato a parlare della mia lettera aperta, della necessità di ritrovarsi a parlare di Romanzo, abbiamo parlato di Esistenzialismo tra Francia e Svezia, della differenza tra Sartre e Dagerman. Mercoledi scorso questo pezzo, nella versione un po’ più breve, è apparso sul quotidiano Avvenire, è stato riportato su Vibrisse e ha destato molta attenzione. Si possono leggere i commenti cliccando QUI.

Ora interviene nel dibattito sul Romanzo Italiano del XXI secolo. Gli interventi pubblicati fino ad ora si trovano qui:

Tutto è partito dalla lettera che si può leggere qui.

Parlando con Davide Bregola, l’autore di Racconti felici, poche settimane fa dicevo che ci vorrebbe qualcuno che si dedicasse alla compilazione di una «antologia dello sguardo fresco». Al di là della battuta, sarebbe interessante se qualcuno si impegnasse a trovare tra le narrazioni d’oggi pagine in grado di comunicare uno sguardo ingenuo sulla realtà, da quella migliore e solare a quella più dura e tragica. È tutta questione di sguardo. Valutare una narrazione significa valutare uno sguardo e la sua adeguatezza. Per lo scrittore tutto trova verifica nel suo occhio. È questa, infatti, la domanda che sempre mi pongo davanti a un libro: cosa vede? cosa mi fa vedere? come me lo fa vedere?
Ho davanti una manciata di romanzi italiani del 2005. Ammetto che, dopo anni di vivo interesse per la nuova narrativa del nostro Paese, ho fatto una certa fatica nel frequentarne le pagine nell’ultimo periodo. Il lettore de La Civiltà Cattolica, la rivista per la quale scrivo, se ne sarà accorto. Era come se avessi bisogno di uno spazio più ampio, di sguardi più ariosi e limpidi di quelli che avevo davanti. Li ho trovati in altre letterature. In realtà spero che questa sensazione negativa passi in fretta. So però che cosa l’ha generata. Cercherò di spiegarlo. Prendo lo spunto da ciò che Enrico Palandri ha recentemente affermato in un suo saggio su Pier Vittorio Tondelli: «La letteratura offre forse l’immagine più fasulla della storia, proprio perché è sia sognatrice che vittima della vanità di spiegare. Cerca di dare senso a un fantasma, allo spirito del tempo, quando invece sciagure e catastrofi si abbattono costantemente su di noi senza nessuna ragione…». È una frase perfetta nella sua negatività, e contiene una «visione» ben a fuoco: il tutto, la realtà, sarebbe irragionevole, e la letteratura sarebbe vittima della vanità di spiegare.
Ho litigato a lungo con questa frase per me indigeribile. Questo mi ha aiutato a prenderla sul serio, a scavarla dal di dentro. Mi ha pure ricordato che proprio Tondelli venticinque anni prima aveva parlato di una «fiducia nella letteratura» che riconosce come sia «possibile affidare alla letteratura, al libro, la comunicazione di una propria esperienza e di un proprio linguaggio reali». Mi riconosco decisamente in ciò che aveva scritto Tondelli, sebbene in altri tempi rispetto a quelli attuali: la letteratura è la comunicazione di un’esperienza. Non è vana volontà di spiegare, ma è visione ed esperienza del mondo.
Prendo le espressioni di Palandri e di Tondelli, due degli autori italiani maturati negli anni Ottanta, come paradigmatiche per l’oggi. Credo che sia quanto mai urgente che lo scrittore si scrolli di dosso l’unico compito che sembra essergli proprio: quello di smascherare il volto negativo e drammatico della realtà, intesa necessariamente come crudele e tragica. È vero, i nostri tempi non sono allegri: alle spalle abbiamo il naufragio, e forse il naufragio è sempre in atto. Tuttavia credo che quella dell’indignazione o della rassegnazione non sia la strada obbligata, come molti sembrano credere. Esiste un compito molto più propositivo (o forse anche «epico», perché no?): quello di far fare un’esperienza nuova della realtà, del mondo, della vita. La giovane poesia italiana sembra procedere più speditamente in questa direzione. Insomma, questo vorrei nella narrativa che verrà: una fede nella potenza della letteratura, intesa come la capacità di guardare il mondo con occhi «freschi», nuovi, nonostante tutto e al di là del cliché della precarietà della vita. È una novità di sguardo quella che cerco nella narrativa. Il grande e dimenticato G. K. Chesterton, ricordando la lettura del Robinson Crusoe, affermava che la parte più bella di quel libro è la lista degli oggetti salvati dal naufragio. Aveva ragione perché essa lo aiutò a comprendere come un buon esercizio per lo scrittore è quello di ricordare come tutte le cose sono sfuggite per un capello alla perdizione: tutto è stato salvato da un naufragio.
Ecco cosa mi aspetto dalla nuova narrativa italiana, ecco ciò di cui sono alla ricerca: pagine libere dalla stanchezza del rancore e del fallimento necessario, dal torpore del sentimentalismo, dalla banalità del puro gioco delle forme; pagine che conoscono la perdizione del naufragio, ma anche la grazia della salvezza; pagine che sappiano guardare alla realtà così com’è, senza rimedi e senza l’airbag della militanza indignata o colta. La tragedia, così com’è descritta da alcune narrazioni d’oggi, purtroppo, non fa male per niente: fa riflettere e basta. Per far provare la puntura del dolore, per farne fare esperienza al lettore, è necessario che lo scrittore abbia uno sguardo da bambino, nudo, privo di difese. Se è l’occhio stupito del fanciullino ad essere l’unico testimone dello stupore, è lo stesso occhio ad essere anche l’unico testimone credibile della tragedia.
Penso, ad esempio, alle pagine di uno scrittore «esistenzialista» come lo svedese Stig Dagerman (indicibilmente superiori a quelle di Jean-Paul Sartre). Solamente questo sguardo è anche capace di guardare veramente all’orrore senza infingimenti e coperture. Gli occhi di Stig Dagerman sono quelli aperti di un fanciullo, ma velati di lacrime o concentrati con troppa consapevolezza sull’assurdo. Il suo sguardo fa venire in mente quello della ragazza ritratta dal pittore norvegese Edvard Munch nel quadro Pubertà, la quale fissa con occhi inquieti fuori della tela. Personificazione delle paure adolescenziali, l’immagine riflette il turbamento causato da un’esperienza forse sconvolgente, rivelata anche dalla presenza di una grande ombra misteriosa. Da questi occhi prende forma il suo «esistenzialismo», che ha, se così si può dire, la freschezza della prima bruciatura. Ma sempre di freschezza si tratta.
Mi ha colpito al riguardo una affermazione di Marco Mancassola, scrittore che appena ha appena attraversato la soglia del trentesimo anno. Egli pensa che in questi decenni la letteratura abbia «perso qualsiasi residuo di innocenza». È vero. Tuttavia non è vero, come egli invece sostiene, che «invocare oggi il ritorno della sincerità nella scrittura potrebbe essere antistorico», non è vero che non si possa «tornare sinceri dopo che si è imparato a mentire». Il ritorno della sincerità, dell’ingenuità, dell’innocenza è possibile, anzi: è indispensabile. È l’unico modo per non perdere l’orrore e la grazia della vita.
Sia ben chiaro però: parlando di sguardo ingenuo e fresco non intendo affatto elogiare un facile e stupido spontaneismo. Cerco di spiegarmi facendomi aiutare dal discorso Cosa ha significato per me la poesia del grande poeta giapponese Kikuo Takano: «Scrivere poesie vuol dire anzitutto soffermarmi con uno stupore profondamente fresco di fronte a ciò che esiste, accettare insieme la molteplicità e la continuità degli esseri, fissare su di loro lo sguardo fino a quando svaniscono. La poesia era per me l’unica via per incontrare il senso e la bellezza misteriosa dei legami tra gli esseri, legami che più fissavo più mi perdevo (ma tutto intanto diventava limpido)».
Mi faccio aiutare anche da Luigi Pareyson: «Lo spettacolo della realtà è allora come assistere all’alba del mondo: s’apre la via all’incantato stupore di chi è come diventato contemporaneo della creazione e partecipe della compiaciuta soddisfazione divina: viditque Deus cuncta quae fecerat, et erant valde bona (Gen. 1, 31): wehinneh tov me’od. Con la sua improvvisa irruzione sulla scena, la realtà previene ogni aspettativa e coglie di sorpresa, lasciando attoniti e stupefatti, e suscitando non solo la meraviglia e l’ammirazione, così intensamente anche se sobriamente descritte dai filosofi dell’antichità, da Platone a Plotino, ma perfino, all’occorrenza, un brivido di sgomento, come lo sbigottimento di Pascal di fronte agli spazi infiniti, o l’insondabile “baratro della ragione” di Kant, e il suo senso del “sublime” di fronte all’infinito e alle soglie dell’eternità». Perfetto. E’ questo che intendo con sguardo ingenuamente fresco.

Antonio Spadaro è redattore letterario della rivista La Civiltà Cattolica e collaboratore di varie riviste (Letture, Stilos,…). E’ professore incaricato presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma. Ha fondato Bombacarta. Gli ultimi libri pubblicati sono: A che cosa «serve» la letteratura? (2002); Carver. Un’acuta sensazione di attesa (2001); Lontano dentro se stessi. L’attesa di salvezza in Pier Vittorio Tondelli (2002). E’ in uscita un suo volume su internet culturale e teologico.

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